Capitan Onaivas
I - Alla locanda


Ricordo ancora alla perfezione il giorno in cui i miei circuiti si attivarono e non potrebbe essere altrimenti, giacché sono un droide e, salvo un guasto, la mia memoria non si può cancellare, né alterare.
Oltretutto, l'archiviazione e la registrazione dei dati sono tra i miei incarichi predefiniti.
Il nome in codice che mi fu attribuito dalla Cyber-Robotics è 24GIU64, ma il mio padrone decise di chiamarmi, a suo dire “più semplicemente”, Andros. Essendo io un androide in bio-metallo, il darmi un nome “umano” gli pareva ben più consono del chiamarmi con un, per lui banale, numero di matricola. Vi chiederete a questo punto perché io parli correttamente il linguaggio degli umani, contravvenendo alla legge che obbliga gli androidi a parlare un gergo differente e facilmente identificabile, ma non posso fornirvi ora la risposta, altrimenti rovinerei il racconto.
A dire il vero, il primo volto umano che vidi, non fu quello del mio padrone, ma quello di un tecnico della Cyber-Robotics, il quale era intento nelle operazioni preliminari di attivazione. Fu solo qualche istante dopo che inquadrai e misi a fuoco i lineamenti del mio padrone: Jacques Delacroix. Una carnagione abbronzata, occhi neri e fluenti capelli nero corvino dall'aspetto perennemente disordinato. Rispetto agli altri esseri umani, il mio padrone appariva, allora, particolarmente alto e, conseguentemente, snello; senza per questo essere eccessivamente magro. Insomma, aveva il tipico aspetto di chi abbia terminato l'adolescenza, senza per questo aver ancora maturato il fisico di un uomo maturo.
All'epoca, infatti, il mio padrone era poco più che un ragazzo. Egli aveva appena finito il ciclo di studi all'istituto astronautico e si preparava per il suo primo incarico come ufficiale a bordo di un trasporto astrale: il brigantino stellare Pharaon.
A dire il vero, proprio quel giorno, egli aveva ottenuto il diploma ed io ero solo uno dei tanti regali che, genitori e parenti, gli avevano fatto per la nomina a capitano di vascello e non solo… Casualmente: la consegna del diploma, che sanciva la chiusura del suo ciclo di studi; la nomina ad ufficiale a bordo del Pharaon e il suo diciottesimo compleanno caddero tutti in quel medesimo giorno: il 24 febbraio del 2815, data del sistema di computo temporale terrestre.
Diciotto anni, in tutta la Federazione Astrale, era un'età particolare: la cosiddetta maggiore età, ovvero l'età in cui un essere umano diventa pienamente responsabile delle sue cose e delle proprie azioni, anche civilmente e penalmente. Quello che gli umani, ad un esemplare maschio della loro razza, riassumono con la parola: diventare un uomo.
Ora, per chi non lo sapesse, gli esseri umani vengono fabbricati incompleti, cioè non escono già belli è fatti, ma fuoriescono in una specie di grottesca miniatura di essere umano, incapace di parlare, ragionare e camminare; insomma quasi del tutto inservibili alle loro funzioni elementari. Poi, misteriosamente, senza l'intervento di nessun tecnico o sistema automatizzato esterno, avviene il completamento. La miniatura cresce a scapito d'altri organismi viventi vegetali e animali, impara a camminare, apprende uno o più linguaggi (in ogni caso sempre in numero piuttosto limitato rispetto a quanto noi androidi possiamo fare) e si completa in tutte le funzioni necessarie per diventare un uomo. Le fasi che precedono l'ultimazione funzionale degli esseri umani vengono dette infanzia e adolescenza. Durante l'infanzia non sono uomini, ma bambini. Durante l'adolescenza non sono uomini, ma ragazzi. A quanto pare allorché sono bambini, gli esseri umani appaiono ai loro simili come eccezionalmente intelligenti; quando poi diventano ragazzi, appaiono ai loro simili come eccezionalmente stupidi; infine da adulti, posso apparire ai loro simili come eccezionalmente intelligenti, eccezionalmente stupidi o delle vie di mezzo; ma questa è una cosa che mi è sempre risultata piuttosto incomprensibile, poiché in generale gli esseri umani mi appaiono sempre come piuttosto stupidi.
Mi accorgo che vi sto annoiando con queste cose e proseguo quindi con le vicende del mio padrone.
Prima, tuttavia, vi devo parlare di un mio collega: l'unità d'elaborazione 17NOV67; infatti, io ero il regalo fatto dal padre del mio padrone e 17NOV67 il regalo che aveva fatto al mio padrone la madre. Ovviamente il mio padrone decise di dare un nome umano anche al mio collega, seppure si trattasse di un normalissimo droide elettromeccanico più simile ad un bidone aspirapolvere che ad un essere umano. Non ricordo il motivo per il quale lo chiamò Pauline, ma è scorretto dire che non ricordo, perché io non posso scordare, forse è meglio dichiarare che non conosco il motivo per cui il mio padrone la chiamò così, soprattutto con un nome femminile, forse perché la riteneva, già da allora, la compagnia della mia vita, come in fin dei conti fu.
Pauline, come tutti gli elaboratori, parlava e parla solo in codice macchina. Una vera disgrazia, secondo me. Una vera fortuna secondo il mio padrone, il quale a volte ritiene che io sia un po' chiacchierone. Ritornando alla storia del mio padrone, ricordo che era comunemente riconosciuto che la famiglia da cui proveniva fosse alquanto agiata. Il padre era un autorevole esponente del Senato Astrale oltre ad essere uno dei maggiori possidenti terrieri di Bellerofonte, il pianeta ove si svolsero la maggior parte dei fatti, e lo zio era un armatore piuttosto famoso nella Federazione Astrale poiché possedeva numerose astronavi commerciali, tra i quali il brigantino stellare Pharaon, che è al centro delle vicende preliminari a questa avvincente avventura.
Ora, se questa fosse la mia storia, le vicende inizierebbero da dove il mio racconto è partito; tuttavia questa è la storia del mio padrone e non la mia, quindi gli avvenimenti cominciano sì quel giorno, ma qualche ora prima.

* * *

C'era un certo affollamento alla locanda del Bue Squartato, una specie di rituale che si ripeteva ogni anno. Non una festa tradizionale, né un vera è propria cerimonia. La cosa era molto più semplice e banale. La locanda e, quindi, l'annessa birreria sorgevano proprio di fronte al collegio Olaf Strømberg dove, ogni ragazzo di Bellerofonte aspirasse a comandare una piccola astronave commerciale, iniziava il suo ciclo di studi. Per raggiungere un livello superiore e quindi comandare grosse unità astrali dotate d'iper-guida si sarebbe poi dovuto frequentare l'Accademia Militare della Federazione Astrale, tuttavia per diventare un buon secondo e poi, con l'esperienza, il comandante di qualche grossa unità mercantile, il collegio Olaf Strømberg era più che sufficiente. Ogni anno, in quel giorno: il 28 di febbraio (secondo la data unificata astrale), la mattina venivano esposti i risultati dell'esame finale e, nel pomeriggio, veniva effettuata la cerimonia pubblica della consegna del diploma.
L'Olaf Strømberg non era l'unico istituto del pianeta, ma sicuramente era tra quelli più prestigiosi. I corridoi erano pieni di ritratti raffiguranti diversi celebri capitani di vascello, mentre i giardini erano spesso decorati con le statue dei più famosi tra di loro; dopotutto quella era una fase d'espansione per la Federazione Astrale. Un periodo caratterizzato più dalla scoperta e conquista di nuovi sistemi solari, che da invenzioni e innovazioni tecnologiche particolari. Quasi il genere umano funzionasse attraverso cicli d'espansione territoriale, seguiti da altri d'innovazione tecnologica e così via.
In un tavolo della locanda, tre ragazzi festeggiavano a boccali da mezza pinta di birra. Bellerofonte era infatti noto nella Federazione Astrale come un pianeta “granaio”, dove il frumento e tutti gli altri cereali (il farro, l'avena, l'orzo, la segala e via discorrendo) parevano crescere piuttosto bene, almeno rispetto agli altri pianeti appartenenti alla Federazione Astrale. Ovviamente (viste certe brutte abitudini degli esseri umani, come la dedizione all'alcool) uno dei tanti sottoprodotti dei cereali, che il pianeta aveva sviluppato e perfezionato con il tempo, era la birra.
Ora, per chi non lo sapesse, Bellerofonte era uno dei tanti pianeti che il genere umano aveva “ricondizionato”, vale a dire mutato radicalmente rispetto alla condizione amorfa ed inerte iniziale, stravolto a tal punto da averlo dotato di un'atmosfera respirabile e di un ambiente in grado di ospitare il genere umano nonché l'intero ecosistema biologico del pianeta natio: la Terra.
Se vi chiedete il perché di tanta dedizione ad un pianeta “morto”, dovete sapere che uno dei primi articoli della Costituzione della Federazione Astrale (ad essere pignoli dell'allora Confederazione delle Nazioni Terrestri) vieta e vietava di alterare qualsiasi pianeta fosse dotato di un proprio sistema biologico, anzi quei sistemi vengono e venivano protetti come immensi parchi naturali, quindi solo i pianeti: privi di vita, delle dimensioni adatte per avere un sistema gravitazionale opportuno, collocati ad una distanza utile dalla propria stella e in grado di possedere un sistema magnetico proprio (naturalmente o artificialmente) che fungesse da schermo per il vento solare, erano stati presi in considerazione. Forse, in un futuro prossimo, la tecnologia avrebbe permesso di alterare i parametri gravitazionali di un pianeta, controllarne i dati ambientali a prescindere dalla tipologia e dalla distanza della stella e realizzare un adeguato campo magnetico per schermare le radiazioni, ma per ora i pianeti ricondizionabili e, ancor di più, quelli ricondizionati, erano veramente pochi.
Ma, come dice sempre il mio padrone, tendo a divagare. Allora ritorniamo alla storia che vi ho promesso di narrare.
Dove eravamo… tre ragazzi all'interno di una taverna affollata ed intenti a celebrare con dei boccali la fine del loro ciclo di studi.

* * *

In un periodo di conquista dello spazio e di grande espansione territoriale e commerciale molte erano le opportunità che si presentavano a chi avesse un minimo di spirito d'iniziativa e non temesse l'avventura.
I tre ragazzi seduti al tavolo conoscevano tutto questo, sapevano quindi di essere dei pionieri e che, per ora, il commercio astrale (esercitato più illegalmente che legalmente) offriva grandissime prospettive di carriera e di guadagno, ovviamente se alle proprie capacità si fossero anche abbinate una buona dose di coraggio e di elasticità mentale per quanto concerneva il rispetto della legge.
Le parole scorrevano più veloci di quanto riuscisse a muoversi la loro lingua e i loro sguardi erano pieni d'orgoglio, così da far apparire la loro espressione oltremodo fiera, come accade spesso a tutti coloro che abbiano affrontato grandi pericoli e incredibili avventure solo con la fantasia. Dai loro discorsi emergevano solo grandi speranze e smisurate possibilità, nemmeno una sottile venatura di disillusione. Certo, imbarcarsi su un mercantile non poteva essere la massima ambizione per nessun ragazzo che sognasse di comandare una potente e possente nave interstellare. I mercantili viaggiavano essenzialmente sfruttando, tramite delle enormi vele, i venti solari, utilizzando così solo il minimo indispensabile i propulsori a particelle, con velocità spesso ridicole rispetto alle unità militari e non della Flotta Astrale. Erano rare le astronavi mercantili dotate d'iper-guida, quindi in grado di utilizzare l'iper-spazio per affrontare lunghissime distanze in tempi umanamente plausibili e, comunque, appartenevano tutte alla Federazione Astrale, poiché la Costituzione vietava ai mezzi privati di poter utilizzare questo tipo di tecnologia monopolio esclusivo della Corporazione Astrale delle Compagnie Mercantili.
In verità, contrabbandieri e pirati contravvenivano a questa disposizione, tuttavia è necessario mettere in evidenza che contrabbandieri e pirati contravvenivano anche a molte altre disposizioni della Federazione Astrale. Forse per questo senso di trasgressione, forse per il fascino dell'idea stessa d'avventura insita nelle parole, forse per la possibilità di utilizzare tecnologie vietate ai più, questo argomento: il contrabbando e la pirateria erano in quel momento al centro dei discorsi di uno dei tre ragazzi. Un tipo biondo, magro, dal mento affilato e con due occhi azzurri particolarmente chiari. Il suo nome era Thomas Riddle. A differenza di Jacques Delacroix, la sua famiglia d'origine anticamente ricca e rispettata era stata ridotta in uno stato d'estrema povertà. Peraltro, cosa assai sconvenite, di lui non si conosceva il padre e la madre era morta dandolo alla luce, portandosi così nella tomba quale fosse il cognome che il neonato avrebbe dovuto portare. Tuttavia, a dispetto della sua provenienza sociale, le sue ambizioni erano pressoché smodate; quasi fosse posseduto da una fame di potere e, quindi, di denaro cresciuta in tutti quegli anni centimetro dopo centimetro insieme a lui dall'infanzia fino al termine della pubertà.
La sua parlata era strascicata e altezzosa, caratteristica propria di chi sia abituato a primeggiare spinto dalla sola forza dell'ambizione.
«Parlate bene voi due. Voi, Jacques Delacroix, avete già un imbarco pronto su un brigantino astrale di proprietà di vostro zio e voi, Erwin Rorschach, di sicuro v'imbarcherete insieme, sfruttando il medesimo canale di raccomandazione! Io, nonostante sia stato indubbiamente il migliore del corso, ho dovuto invece sudare le proverbiali sette camice, per trovare la possibilità d'imbarcarmi su una lurida e decrepita goletta stellare.»
Erwin Rorschach, un ragazzo dai capelli castani, non particolarmente alto e dall'aspetto paffuto (il che gli conferiva al tempo stesso un'aria impacciata e bonaria) rispose, fissandolo pacatamente con i suoi luminosi occhi verdi, a quelle parole così sprezzanti con un tono di voce accondiscendente (come si suole fare abitualmente con chi ragioni, ormai, solo tramite i fumi dell'alcool).
«È vero che il nostro caro amico Jacques Delacroix e io abbiamo facilmente trovato un imbarco su un'unità che appartiene allo zio di Jacques Delacroix, ma è altrettanto indubbio che ambedue non abbiamo un incarico di prestigio. Si tratta per entrambi solamente di fare un po' di gavetta. Voi, caro amico, avete invece cercato a tutti i costi una posizione, perlomeno, di secondo ufficiale, nonostante questo sia solamente il vostro il primo vero imbarco…»
All'udire queste parole, Thomas Riddle tracannò d'un fiato la mezza pinta di birra che riempiva il suo boccale, asciugandosi le labbra con il bordo della manica della sua divisa del collegio (gesto assai poco elegante se mi permettete il commento), quindi replicò sprezzante: «Credo, caro Erwin Rorschach, che tutte le ore di navigazione astrale accumulate durante gli anni di collegio e il fatto che io sia stato il primo del corso per tutti questi anni sia una benemerenza che meriti maggior rispetto! Voi sapete bene che mi sono potuto mantenere agli studi solo grazie alle borse di studio e non certo perché qualcuno di noto ad entrambi mi passava sottobanco i soldi della propria “paghetta”. Credo che conosciate i fatti che hanno caratterizzato la mia vita sin dalla nascita… e la sfortuna che si abbatté sulla mia famiglia.»
A questo punto della discussione, anche perché s'era sentito toccato sul piano personale, intervenne anche il mio padrone.
«Thomas Riddle, direi che voi, per oggi, abbiate bevuto abbastanza, non vi accorgete che ormai straparlate? Suvvia, non siate arrabbiato! Dopotutto siamo tra amici. Piuttosto, avete intenzione di ricevere il vostro diploma in piedi o strisciando? Forse è meglio che noi si paghi il conto e si esca tutti e tre all'aria aperta. Ritengo che una passeggiata rallegrerà il vostro animo, caro amico; perché oggi mi pare che esso sia stranamente cupo e ciò nonostante oggi sia per tutti noi una giornata di festa.»
Egli disse queste parole senza alcuna nota d'astio o di rancore, ma con placida benevolenza, dopotutto era abbastanza evidente che il compagno di studi fosse piuttosto alticcio e non occorreva contare la mezza dozzina di boccali vuoti che questi ormai aveva lasciato sul tavolo per giungere alla medesima conclusione; inoltre il mio padrone sapeva bene che l'essere completamente orfano rendeva all'amico la consegna dei diplomi in qualche modo una festa a metà.
Incoraggiato da queste parole Erwin Rorschach tentò di prodigarsi per aiutare Thomas Riddle ad alzarsi, ma questi lo cacciò bruscamente, gridando a gran voce: «Non ho bisogno d'aiuti, ce la faccio anche da solo, io non ho bisogno di nessuno!» Tuttavia già al terzo passo il suo ginocchio aveva toccato per terra.
Nel frattempo il mio padrone era scomparso, infatti dopo aver fatto solo pochi passi in direzione del bancone la sua figura era svanita, quasi inghiottita dalla semioscurità fumosa del locale.
Se i suoi lineamenti s'erano rapidamente dissolti, così non era accaduto per la voce. «Adriana Pereira,» disse con una strana nota d'affetto nella sua voce, «vorrei pagarvi quanto dovuto, noi ce ne andiamo, Thomas Riddle ha già bevuto abbastanza per oggi e non vorrei arrivasse alla consegna dei diplomi troppo ebbro.»
Per chi non lo sapesse, Adriana Pereira era la figlia del proprietario della locanda, una ragazza molto giovane, ma al contempo molto capace, tanto da meritarsi l'opportunità di lavorare nella birreria, che non era certo un ambiente facile, né tanto meno per educande. Forse proprio a causa della particolare avvenenza della ragazza il mio padrone s'era ritrovato a parlare oltre il dovuto, pur di mettere in fila qualche parola in più e allungare, con quel pretesto, il tempo in compagnia della giovane.
«Allora, sono cinque scudi e sette piastre. Oggi, se non sbaglio, dovrebbe essere un giorno importante per voi…»
«Certo, come tutti sanno, oggi c'è la consegna dei diplomi.»
«Intendevo un giorno importante per voi e solo per voi… credevo fosse il vostro compleanno, secondo il calendario astrale oggi dovreste raggiungere la maggiore età o, forse, mi sbaglio?»
«Voi, dunque, conoscete la mia data di nascita!?» Disse il ragazzo con tono imbarazzato, ma piacevolmente sorpreso.
«Se è per questo conosco molte cose su di voi…» fu la risposta allusiva della giovane.
«Io, sfortunatamente, non posso dire altrettanto, signorina…»
«Oddio, credo sia solo una questione d'interessarsi o meno alle persone…»
«Cosa vorreste dire con queste parole?» Fu la domanda piena di stupefatto imbarazzo.
«Se voi non capite, fa niente…»
Il tono della ragazza ora era venato di una certa delusione e non più della sfumatura ironica ed allusiva che aveva adoperato all'inizio.
La ragazza incassò la somma e voltò le spalle lasciando il ragazzo nel proprio imbarazzo. Per evitare la facile ironia dei clienti, che già stavano ridendo, Jacques Delacroix si diresse rapidamente verso l'uscita della locanda avvolto dal fumo e dai propri pensieri.
Adriana Pereira all'epoca era una bella ragazza di circa sedici anni, capelli lunghi e ricci di color nero corvino, carnagione ambrata, due profondi occhi neri e un bel personale. I complimenti nei sui confronti da parte degli avventori ormai si sprecavano. Da quando s'era fatta donna, anche quel pudore che tratteneva le parole della maggior parte frequentatori abituali del locale era venuto meno, per cui era difficile avere l'ardore di proferirle un complimento o una parola dolce, senza poi temere di risultare irritanti e spacciati, almeno questa era la personale opinione del mio padrone all'epoca.
Una volta uscito dal locale, Jacques Delacroix vide che Thomas Riddle era già intento a rigettare quanto ingerito, il ché non era del tutto un danno, visto l'impegno previsto per il pomeriggio; quindi prese educatamente Erwin Rorschach in disparte per parlargli privatamente.
«Ora, mio fedele amico, non vi voglio certo rimproverare, poiché non mi reputo così saggio da propormi come vostro maestro di vita, voglio solo che consideriate i fatti per come si sono svolti poco fa e, in conseguenza di ciò, vi domando, senza astio né rancore alcuno, perché mai avete parlato del prestito che vi ho fatto con Thomas Riddle? Eppure sapete bene com'egli sia fatto! Forse speravate che egli avrebbe capito il nostro tacito accordo?»
«Scusatemi, Jacques Delacroix, avete indubbiamente ragione e scusatemi se in alcun modo ho tradito la fiducia che in me avevate riposto, ma un giorno che egli si lamentava per le difficoltà economiche che ha sempre dovuto affrontare, io ho avuto l'ardire di confidargli la magnanimità del vostro buon cuore e come potesse anch'egli, senza tema alcuna, rivolgersi a voi, ma Thomas Riddle mi ha risposto che non aveva bisogno dell'elemosina di alcuno. Io ho anche provato a spiegarli il nostro patto, cioè che io vi restituirò fino all'ultima moneta quanto mi avete concesso in prestito con i soldi che guadagnerò con questo imbarco, ma egli, voi lo sapete bene, è persona troppo orgogliosa per ammettere che si possa nella propria vita avere bisogno degli altri. Egli ritiene che ogni uomo sia un'isola… e che l'amicizia non porti alcuna unione solidale o giovamento nel quotidiano vivere comune.»
«Invero dite il giusto,» commentò triste il mio padrone «so bene che Thomas Riddle è un caro ragazzo e altrettanto bene so quanto egli sia smisuratamente orgoglioso.»
«Sarà, ma a volte trovo che egli sia insopportabilmente arrogante!» Ribatté quasi più offeso nell'amor proprio che irato l'amico «Scusatemi per questo sfogo, ma in questo momento una certa animosità oscura il mio cuore e altera le mie parole.»
«Non schernite così la vostra persona, mio caro e onesto Erwin Rorschach, fate torto al vostro buon cuore e dico ciò, dacché io ben lo conosco. Quietate i vostro animo e pensate piuttosto a quante difficoltà abbia dovuto attraversare il nostro comune amico, siete ben al corrente di cosa sia accaduto a sua madre e conoscete perfettamente anche quali torti e ignominie siano state compiute nei confronti della famiglia di suo nonno!»
«Ciò che dite, mio fidato Jacques Delacroix, è tutto sacrosanto, ma suo nonno non è l'unico che sia rimasto coinvolto con la ribellione del '12. Così dicendo fate torto alla mia famiglia, la quale è stata toccata quasi in ugual modo. In quanto a sua madre, che Dio perdoni ciò che sto per avere l'ardire di pronunciare, ma vi sono termini ben risaputi dagli uomini dabbene per definire una donna che generi un figlio senza che il padre sia noto, ma queste sono parole che io non sono aduso far uscire dalla mia bocca… voi ben lo sapete.»
«Suvvia, codesti pensieri non vi fanno certamente onore! Forse anche voi, come il nostro caro amico, avete ecceduto nel bere? I fatti che mi narrate, li conosco bene e, purtroppo, sono noti a tutti, ma suo nonno, per la posizione di rilievo che ricopriva, è stato tra i pochi che abbia subito la confisca totale dei beni. Per il resto, non datevi troppe preoccupazioni, in realtà ed occultamente mio padre s'è sempre occupato dei problemi di Thomas Ridde, nonché di quelli della sua famiglia… come di quelli della vostra, nondimeno. Ma non vorrei arrecare offesa ad un fraterno amico per cui parliamo d'altro e finiamola d'infangare così l'onore che c'appartiene e ci ha sempre contraddistinto. A proposito, visto che siete noto per l'equilibrio dei vostri giudizi. Che ne pensate della figlia del locandiere: Adriana Pereira?»
Udendo questa domanda Erwin Rorschach si lasciò sfuggire una risatina e la sua risposta uscì con un certo tono di malcelata sufficienza.
«Perché me lo chiedete? Vi potrei dire che Adriana Pereira è una bellissima ragazza, ma questo è sotto gli occhi di tutti. Potrei dirvi che ha un bel carattere e che è una ragazza a modo, ciò a dispetto dell'ambiente in cui ella lavora ed è cresciuta; ma credo che anche questo vi sia noto. Potrei dirvi che in molti, ormai, le fanno la corte, ma pare che ella abbia occhi solo per un tizio che, se non lo conoscessi bene, riterrei cieco o sciocco, giacché pare non essersene ancora reso conto. Ora, viste le cose che potrei dirvi, cosa in realtà vorreste che io, in tutta onestà, vi dicessi?»
Il volto del mio padrone, nell'udire queste parole, si fece cupo.
«Dunque, secondo voi, io sarei uno sciocco?»
«Non siate così suscettibile e permaloso. Si vede che lo spillo della verità punge più nel cuore dove risiedono i sentimenti che altrove. Jacques Delacroix uno sciocco? Voi lo dite! Suvvia mi chiedete di dirvi ciò che il cuore già da diverso tempo vi racconta, nonostante ciò il vostro cervello vuole sentire quelle medesime parole pronunziate dalla mia bocca…»
L'espressione turbata e torva del mio padrone si sciolse ben presto in un sorriso.
«Pensate che dovrei invitarla ad uscire?»
«Insomma, non capite? Non importa ciò che io penso o ciò che io voglio… voi cosa vorreste fare? Vi piace o no? Cosa provate per lei?»
«Diamine, che domande! Cosa volete che vi dica, se per me è bella?»
«Suvvia, Che Adriana Pereira è bella è una verità lampante sotto gli occhi di tutti! Piuttosto, vi piace? Non fate altro che pensare a lei? Quando la vedete la vorreste forse toccare? Quando le siete vicino, vi si secca la gola, vi si contorce lo stomaco e l'unica vera medicina a questa dolce malattia che tormenta il vostro cuore pare essere baciarla?» Erwin Rorschach interruppe il suo fiume di parole e tacque un attimo, al fine di fissare attentamente e con fare investigativo l'amico che gli stava immobile e zitto di fronte. «Dal rossore che ha invaso la vostre gote e acceso i lobi delle vostre orecchie direi di sì, ma è possibile che voi siate così imbarazzato ad invitare quella ragazza ad uscire? Suvvia Jacques Delacroix, un uomo come voi dovrebbe saper obbligare la lingua a parlare, anche quando un nodo pare serrare la vostra gola… o mi sbaglio?»
Il mio padrone rimase qualche secondo immobile a pensare, inutilmente, come controbattere a quelle sagge parole, poi si girò in fretta su se steso e tornò all'interno della locanda; quando ne uscì nuovamente aveva un'aria a dir poco radiosa.
«Dunque la fortuna aiuta gli audaci, mio caro amico, dall'espressione che v'illumina il volto direi che ella ha accettato!» Esclamò con tono gioioso Erwin Rorschach.
Jacques Delacroix, per risposta, annuì semplicemente, quindi disse: «Ne parliamo dopo, adesso tentiamo di riportare a casa il nostro comune amico, direi che da tempo ha finito di vomitare tutta la birra che s'è bevuto, ma ciò gli ha reso le gambe troppo molli per giungere sano e salvo alla sua dimora. Vedete dunque di tacere e datemi, piuttosto, una mano.»

* * *

La consegna dei diplomi, per tradizione, avveniva nell'ampio piazzale interno del collegio, una vera e propria piazza d'armi. Anche quell'anno, come tutti gli anni, i cadetti erano schierati al centro del piazzale con addosso la loro tradizionale divisa amaranto in modo da creare un'uniforme ed ordinata macchia del medesimo colore. I loro familiari, viceversa, erano tutti comodamente seduti lungo due tribune poste simmetricamente ai lati di quella coorte amaranto. Come ogni evento mondano prevede, la solita folla di perditempo curiosi era accalcata in ressa poco dietro lo schieramento dei cadetti e premeva contro le transenne quasi le volesse forzare. Infine, un palco posto proprio di fronte ai cadetti ospitava le autorità al gran completo e tra queste, assiso su un alto podio, il rettore del collegio, anch'egli vestito del tradizionale color amaranto.
Il capo dell'istituto tenne come ovvio un breve discorso d'apertura, quindi la cerimonia proseguì con la sfilata delle varie classi e gli interventi delle varie autorità, infine il rettore riprese la parola per un più lungo e complesso discorso che aveva per argomento centrale gli alti valori etici e morali che gli allievi avrebbero dovuto sostenere e mantenere nella vita, ponendo un particolare accento sul senso del dovere e sulla disciplina. In sostanza si trattava del solito discorso di ogni anno, sufficientemente lungo per non sembrare banale e sufficientemente breve per non risultare noioso, ma soprattutto ogni anno realizzato con parole differenti per non sembrare ogni volta troppo uguale a se stesso.
Il clou della cerimonia era tuttavia quando, in rigoroso ordine alfabetico, uno dopo l'altro, tutti gli allievi dell'ultimo anno venivano convocati sul palco per ricevere l'anelata pergamena del diploma. I ragazzi, scattando fulminei dalle file serrate, correvano verso il pulpito e, dopo un inchino al rettore, ricevevano dalle mani del medesimo il prezioso rotolo di pergamena poi, solitamente, tenevano uno stringato discorso di ringraziamento, solitamente rivolto all'indirizzo dei genitori e in particolar modo agli sforzi sostenuti da questi per il raggiungimento di quell'obiettivo.
Al termine della cerimonia il rettore tenne un ulteriore breve discorso di commiato, quindi per festeggiare l'evento tutti i cadetti lanciarono contemporaneamente i loro berretti verso l'aria ruggendo il nome del loro pianeta e creando in tal modo l'effetto coreografico dell'esplosione di un fuoco d'artificio.
Jacques Delacroix sapeva benissimo dove fossero seduti i propri familiari, tuttavia i suoi occhi, durante l'intera cerimonia, erano andati freneticamente alla ricerca di qualcosa o, meglio, di qualcuno: un volto noto particolare. Tuttavia, nonostante gli sforzi, egli pareva non essere riuscito sino a quel momento nell'intento d'individuarlo.
Adesso, che la cerimonia era terminata, la cosa era ancora più evidente, giacché non era più costretto ad utilizzare solo la coda dell'occhio per scrutare il retro del piazzale, ma poteva ora voltarsi e rizzarsi persino sulla punta dei piedi, allungando, per quanto possibile, il collo.
«Si può sapere chi state cercando, buon Jacques, i posti per i familiari sono numerati e i vostri cari dovrebbero essere seduti all'incirca lì.» Gli disse Thomas Riddle, indicando con la mano dove sarebbero dovuti essere i familiari del mio padrone.
«Amico mio,» dichiarò ironico Erwin Rorschach «egli non sta cercando qualcuno della sua famiglia… o almeno non della sua attuale famiglia… per ora! Credo che stamane egli abbia invitato qualcuno ad assistere alla cerimonia.»
L'incontro con un sorriso illuminò il volto di Jacques Delacroix, giacché era quello della persona che ostinatamente egli stava cercando. Eppure alla vista di quella scena romantica Thomas Riddle parve rabbuiarsi, insinuando in tal modo in Erwin Rorschach il sospetto che anche quest'amico fosse attratto dalla medesima fanciulla.
Jacques Delacroix impaziente s'avvicinò alla ragazza e, timidamente, dichiarò: «Oh, Adriana Pereira, sono immensamente lieto che voi siate venuta, ad essere sincero, non ci speravo.»
«Jacques Delacroix, voi m'offendete! Perché mai non sarei dovuta venire? Dopotutto v'avevo dato la mia parola ed inoltre vi avevo dichiarato che sarei stata ben lieta d'assistere alla cerimonia. Ora mentre affermavo ciò, io non dicevo il falso, perché io non mento mai.»
Nell'udire queste dure parole il rossore che avvampava il ragazzo si trasformò improvvisamente in un pallore quasi cadaverico, evidenziando lo stato d'imbarazzo in cui era ora precipitato. Inoltre rimava muto ed immobile con lo sguardo rivolto a terra, mortificato per l'infelice uscita.
Se devo essere sincero (e non potrebbe essere altrimenti, dato che i miei circuiti m'impediscono di mentire), all'epoca il mio padrone non lo si poteva di certo definire un gran seduttore.
A rompere quella situazione di reciproco imbarazzo ci pensò Erwin Rorschach.
«Ci scusi gentile signorina. Caro Jacques, ti dobbiamo salutare. Thomas Riddle ed io siamo costretti andare via. Ovviamente ci dispiace enormemente non poter restare con voi, ma abbiamo un urgente impegno che ci attende e dobbiamo proprio andare. Vorremmo tanto trattenerci con voi, signorina, ma ci è proprio impossibile.»
«I nostri omaggi.» Aggiunse il ragazzo, zittendo Thomas Ridde, prima che questi potesse chiedere ad alta voce quali urgenti impegni potessero avere.
Rendendosi conto dello stato d'imbarazzo indotto dalle proprie parole e dimostrando grande tatto, Adriana Pereira cambiò decisamente argomento: «Or dunque, questo sarebbe il famoso collegio, perlomeno visto dall'interno!»
«Già.»
«Bello, pare abbia degli stupendi giardini e che la statua del Comandante Olaf Strømberg sia di ottima fattura, perlomeno così ho sentito dire.»
«Già.»
Prima di dover tornare verso i propri familiari ed essere costretto a sostenere le inevitabili presentazioni di rito, Jacques Delacroix avrebbe voluto invitare la ragazza ad una romantica passeggiata lungo i giardini, ma sopraffatto dalla bellezza della fanciulla tutto quello che riusciva a dire erano solo quei monotoni: già.
«Le siepi e le aiuole che s'intravedono da qui sono ammirevoli, mi piacerebbe poterli osservarli più da vicino.» Ribadì all'improvviso la ragazza. «Vi dispiacerebbe accompagnarmi, vorrei farci una passeggiata, ma temo di potermi perdermi.»
«Sicuramente, per me sarà un onore!»
Jacques Delacroix porse cortesemente il braccio e Adriana Pereira vi si attaccò.
Questo mi porta a dire che a volte l'unico sentiero per superare quella che sembra una montagna invalicabile è percorrere con calma il sentiero più lungo e tortuoso.

CONTINUA...


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